Le ultime foglie di cavolo nero le ho strappate dal torsolo del ceppo ancora ghiacciate. L’avevo piantato il 2 giugno.
L’ho portato in cucina mentre la radio trasmetteva gli applausi al Presidente, per il bis di Mattarella. Il freddo d’inizio 2022
abbinato alla siccità ha giovato a salvaguardare un ortaggio per certi versi ancestrale, catalogato come Brassica acephala, che
tra le Dolomiti non ha mai riscosso particolari attenzioni. Nel mio orto è invece un simbolo di resistenza. Proroga il raccolto,
chiude un ciclo e stimola a riprogettare primaverili ‘messe a dimora’.
E’ la semplicità colturale che sancisce il carattere di una pacifica gestione orticola, e scandisce pure il racconto,
la micro narrazione legata alla mia spassionata dedizione alla terra. Richiama a parole-guida: paesaggio, territorio,
storia, cultura, ambiente. Partendo semplicemente da un cavolo. Proprio così.
Riporta a ritmi agricoli mirati prevalentemente a battere la fame. A prolungare nel tempo la conservazione dei raccolti, a cercare soddisfazioni
(più di pancia che di gola) in raccolti cibari dove nulla doveva essere sprecato. Del resto il concetto di ‘orto’ è proprio legato
a questa funzione. Non serve curiosare nella mastodontica letteratura agronomica, nei sussidiari di cucina come nei minuziosi
almanacchi curati da monaci o i religiosi che nei conventi - o monasteri - dovevano accudire il terreno ‘entro le mura’.
Basta semplicemente recuperare nella nostra memoria sensazioni che riemergono da ricordi sedimentati, forse inconsci, ma
patrimonio della nostra intima identità.
Ecco, nel mio piccolo con l’orto di casa cerco proprio di fare questo. Attento, tempi e modi, per un ciclo vegetativo che nulla scardina.
Neppure sulla tipologia delle varietà vegetali che sistemo nel terreno, un mix d’argille, calcare e tracce porfiriche, compattato
da ataviche glaciazioni, lentissimamente trascinate nella valle che s’incunea tra le Dolomiti di Brenta e quella dell’Adige,
disseminata di laghi alpini (ben 7) prima di sfociare nel grande Garda.
Situato a quota 518 metri sul conoide che guarda il Monte Bondone, la cima Cornetto con i suoi 2180, tra vigneti collinari coltivati a Nosiola e Mueller Thurgau (pure di uve Chardonnay e Pinot Nero ‘base spumante’ destinate al Trento DOC) l'orto cerca di essere una semplice applicazione di sagacia rurale. Senza ulteriori obiettivi. Solo il rispetto di quanti hanno conservato il contesto agricolo del mio paese natio (Stravino, minuscola frazione di Cavedine) e nel contempo recuperare qualche rivolta contadina del 1525 - quella di Michael Gasmayr, il ribelle tirolese contro lo strapotere della Chiesa e i privilegi della nobiltà, che arruolò schiere di giovani anche in questa mia valle - senza tralasciare l’impegno di generazioni agricole nella coltura prima del baco da seta, poi nel tabacco, nei tuberi, qualche impulso alla zootecnia e ora prevalentemente nella vitivinicoltura.
Tra una ventina di varietà di ortaggi, una dozzina di pomodori diversi, zucche e zucchine, fagioli rispettosi della biodiversità
più spinta, la semina mirata di patate censite come Ratte (piccolissime, sapore di nocciola, precoci, da cuocere in padella di ferro,
strutto, sale grosso e rosmarino a volontà ) troneggiano - è il caso di dire - tre bandiere in stile balese, con rimandi - nei
colori - alla spiritualità delle genti himalayane. Vessilli di dedizione e - penso - godibile provocazione. Per lasciare spazio
alla fantasia, alla curiosità.
Vele al vento, quello che soffia tutti i pomeriggi, inverno compreso, dal Garda verso nord; vento che mitiga l’ambiente,
le colture e le comunità, aria benefica, come indica il suo nome: Ora, da Aura aurae, brezza lacustre. Indispensabile
per consentire la sovramaturazione delle uve Nosiola destinate al raro Vino Santo Trentino, uve raccolte a settembre e pigiate
nei giorni che precedono pasqua. L’Ora, vento per il bene. Ma ‘ora’ - inteso come valore temporale - spero e credo pure
per il mio orto.
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