Viaggia da un continente all’altro, attraversa gli oceani, quando non è più una pianta appartiene al mondo, all’esercito
sterminato di amatori, manipolato si trasforma e assume colori, consistenze e sapori molteplici; quanto al colore, se lo
fondi e lo mescoli, ottieni anche senza eccessiva immaginazione quello perverso del peccato. Sublime parto della natura il cacao.
Da maneggiare con cura e prudenza.
Un amico di gioventù lavorò in una fabbrica svizzera di cioccolato, durò poco, dopo qualche mese scappò dalle montagne e ritornò
alla nativa città di mare. In sua presenza non si poteva neanche pronunciare la parola perché l’iniziale inebriante profumo
assorbito in dosi industriali provocava la ripulsa fin quasi al rigetto. Ma si era giovani e ogni tanto la ferocia irriverente
che a quell’età sembrava una bella cosa veniva esercitata per farlo soffrire. Una sera in una trattoria di periferia,
tra spaghetti alla puttanesca e salsiccia e friarielli, non si parlava d’altro che della bontà del cioccolato. Non resse e fuggì;
poiché l’auto era sua gli altri dovettero farsela a piedi. E pagare il conto.
Imparata l’arte della destrezza vi fece ricorso anche quando l’età era adulta. Poteva non dar conto, ma sentirsi rimproverato per gli alimenti eccessivi che facevano debordare la sua circonferenza gli pesava. Dunque comprava di nascosto la cioccolata e altrettanto di nascosto se la spassava. Gli successe anche l’impossibile. Amava, ama, quei barattoli di crema marrone che piacciono all’umanità intera (per favore, i puristi del cacao duro e puro perdonino questa licenza) e ne aveva sempre qualcuno nella credenza, a volte anche recipienti di qualche chilo abbondante. Di notte, tornava nelle ore piccole dal lavoro, dormendo tutti, affondava il cucchiaio, poi lo faceva ruotare su sé stesso più volte fino a fare una bombetta di crema e se la ficcava in bocca chiudendo gli occhi. Tornava felice tra le coperte.
E quando si rese conto che stava abusando con danni non solo per la bilancia ma anche per la salute, escogitò uno stratagemma penoso. Soprattutto quando non riusciva a prendere sonno andava in cucina, apriva la credenza e guardava a lungo il barattolo, con amorevole affetto non disgiunto da erotico desiderio, poi chiudeva gli occhi e immaginava le molli ogive che a ritmo industriale penetravano dentro di lui. Appagato dalle sette cucchiaiate e mezza, se ne tornava a letto. Fesso e contento.
Ora capite quale sconvolgimento quando, negli Anni Ottanta, sfogliando come ogni mese la più importante rivista italiana di cucina, lesse un articolo a più pagine e con molte illustrazioni in cui si spiegava come fare le uova di cioccolata in casa. Oggi viene da sorridere se si pensa alla valanga di consigli e ricette di cui, giorno e notte, siamo sazi anche senza toccare cibo, ma quel tempo, poco più di un trentennio fa, sembra preistoria. Chiusa parentesi.
Prima tappa. Casolaro a calata Capodichino. Il paradiso dei cuochi e pasticcieri. Le forme c’erano, professionali, e di varie misure, grandi per metà uovo, anche piccole con due metà da modellare in contemporanea. Seconda tappa, via Morghen al Vomero in un antico negozio noto per la qualità dei prodotti: le medaglie di cioccolato fondente finissimo promettevano risultati eccellenti. E non mentivano.
Che fallimento il primo uovo. Fuso in un pentolino a bagnomaria, il cioccolato finì nella mezza forma. L’attesa che indurisse fu lunga
e inutile perché il materiale non si staccava dalla forma. E per due giorni non ci fu nulla da fare. Telefonata a Milano, alla redazione
della rivista. Sorpresa, non dopo aver dubitato delle capacità del lettore. Che non mollò, per cui una gentile redattrice chiese tempo
per informarsi presso “la migliore pasticceria meneghina”. Lo fece e richiamò: “Vede, deve provare e riprovare”, manco fosse stato
Amanda Sandrelli che giocava a palla con Troisi.
Poiché la cuccia era tosta, effettivamente provò e riprovò per giorni e fino a notte inoltrata mentre l’intera famiglia seguiva
le vicissitudini con sconcerto se non con preoccupazione. Infine, la scoperta dell’acqua calda: la temperatura. La cioccolata
andava messa nella forma ad un grado di temperatura preciso, vale a dire quando era prossima a ridiventare dura: in tal modo si
creava con relativa rapidità una “camera d’aria” necessaria per far staccare il prodotto dal contenitore. Poi fu facile e divertente
ottenere in casa risultati soddisfacenti anche senza gli strumenti di un laboratorio.
Questa è la parte più affascinante. Il cioccolato nerissimo – parliamo di fondente, naturalmente – diventa chiarissimo quando è
completamente fuso, poi raffreddandosi man mano cambia colore fino a riprendere la sua cromaticità di partenza. E quale peccaminosa
goduria controllare le trasformazioni mescolando e intuendo dalla consistenza e dal colore che mutano a che punto di questo viaggio
di andata e ritorno ci si trova. Il resto è un dettaglio. La sorpresa, le due parti da sigillare, decori e dediche con altro cioccolato,
la base per tenerli in piedi, la confezione di plastica trasparente (perché nascondere l’oscuro splendore del contenuto?), una bella
ed elegante coccarda, e voilà!
Anno dopo anno la piccola “azienda” familiare crebbe. Per una Pasqua di quel tempo le uova furono sessantasette. Con altrettante
sorprese: quella volta un libro in miniatura, grande quanto una scatola di fiammiferi, un altro anno furono farfalle colorate
in ferro battuto realizzate appositamente da un fabbro abruzzese che stava producendo anche scatole di metallo per la “Perugina”.
Furono tante perché molte finirono nelle mani dei colleghi di lavoro, una anche al direttore del giornale, Pasquale Nonno, che,
stranamente, non ringraziò. Dopo un paio di settimane si capì. Lui non comprendeva perché un redattore avesse deciso di regalargli
un uovo di Pasqua. E pensava a male. Piaggeria? Che altro? Poi per caso manifestò il suo sconcerto al segretario di redazione
che gli rispose: “Direttore, ma che dici? Le uova le fa lui”. E così, con ritardo, ringraziò complimentandosi anche per la qualità
del cioccolato.
Quelle uova raggiunsero anche la pubblica opinione avendo, una rivista, dedicato un servizio a più pagine al “produttore”.
E poi venne il gran giorno.
Un pomeriggio di aprile, complice un amico che era ed è il commercialista dell’azienda, ebbe luogo la funzione solenne nel
tempio del cioccolato. Vico Vetreria a Chiaia, Gay Odin, la fabbrica del cioccolato. Il profumo: inebriante. Il colore: prima
quello risplendente dei pentoloni ramati, poi quello eccitante del cacao nelle varie fasi di lavorazione. La storia: allora
quasi un secolo da quando Isidoro Odin e Onorina Gay sbarcarono a Napoli per realizzare la fabbrica. La guida: Giuseppe Maglietta,
che aveva acquisito l’azienda nel 1960, rispondeva a tutte le domande, anche quelle che non venivano fatte. E sentirsi piccoli
piccoli in quel luogo di meraviglie e comunque con l’ardita ambizione di considerarsene parte.
Gay Odin, e poi Galluccio in via Cisterna dell’Olio ma anche tanti nuovi produttori di leccornie di cioccolato che si sono
fatti avanti negli ultimi anni. Il fatto è che in questo settore e più in generale nella pasticceria e poi nella gastronomia
Napoli ha tanto da dire. Le eccellenze sono certe, le varietà sterminate, la fantasia garantita, la qualità elevata. Lo sanno
gli abitanti, lo scoprono i turisti che poi ritornano. Ci si può chiedere perché c’è carenza di grandi marchi industriali.
Il tema di sempre. Chissà, forse l’individualismo. Non sembri una bestemmia tra un uovo di Pasqua e l’altro rigorosamente fatti in casa.
Si, corriamo pure al supermercato ma, se vi capita, una sosta a vico Vetreria e a via Cisterna dell’Olio. Peccherete e non ve ne pentirete.
E sarete pure perdonati.
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