IN ALASKA FA CALDO.
LA RECENSIONE
“Più veloce del camminare, più lento del treno,
leggermente più alto di una persona”, c’è un modo
migliore per vedere il mondo? Questa frase di uno degli
artisti più eclettici è diventata quasi un mantra per i
ciclisti di tutto il mondo. Nel suo “Diari della
bicicletta” David Byrne racconta le città di una buona
parte del pianeta scoperte in sella alla sua bici. Qui
parliamo invece di spazi immensi, spesso vuoti, ma
funziona lo stesso. Era, la bici, proprio il mezzo di
cui Stefano Elmi aveva bisogno per coronare il sogno
inseguito fin da ragazzino, quando suo padre gli regalò
l’abbonamento annuale a National Geografic: “Il 1998 era
l’anno in questione. I mesi per me più significativi
però furono quelli di aprile, maggio e giugno. Il
giornalista-viaggiatore-ciclista-avventuriero era Roff
Smith, a trentasette anni lasciò un lavoro sicuro a Time
Magazine e, in mezzo a una crisi coniugale,s’imbarcò in
un viaggio in solitaria attorno all’Australia”.
Un sogno rimasto nel cassetto fino al 2017. Quando si
chiede, dalla scrivania del suo lavoro stabile: “…perché
avevo smesso di sognare? 'Oramai è tardi', 'Lo dovevi
fare prima'... frasi del genere le ho ascoltate in tutte
le età che ho avuto, sino a ora”. Ma “ora” gli sembra il
momento di non dare più retta a quelle frasi di buon
senso. Molla tutto e parte. Non per l’Australia, ma
verso il Grande Nord.
Lasciamolo raccontare a lui:
“Partii da Calgary, Canada, per andare da qualche parte
verso nord. Perché volevo così, perché avevo deciso che
questa era la strada che volevo percorrere. Avevo alcuni
indizi. Uno era Jack London, l’altro era la bicicletta,
il resto sarebbe venuto da sé, lo sentivo. La prima idea
era quella di attraversare le Montagne Rocciose, lo
Yukon, il Klondike e arrivare a Dawson City. Tutti
luoghi sognati e letti in mille libri diversi. Poi, una
volta giunto là, ho deciso di proseguire per l’Alaska
percorrendo strade desolate popolate solo da orsi,
caribù, cicloturisti giramondo e pensionati americani
coi loro camper. Senza un piano ben preciso, lasciandomi
guidare dalle strade che trovavo e seguendo i consigli
di altri viaggiatori in bicicletta, ho attraversato
posti incontaminati come il confine fra lo Yukon e
l’Alaska o la strada che corre verso le braccia aperte
del massiccio del Denali. Qui ho pedalato su immensi
plateau desolati senza vegetazione alcuna, con branchi
di caribù al pascolo sui crinali, i ghiacciai sempre
sullo sfondo. Non ero mai stato dinnanzi a una simile
vastità. Superavo un passo, o giravo intorno a una
montagna, e mi ritrovavo su un altipiano ancora più
vasto di quello precedente, tanto da non riuscire a
vedere il termine della strada, che pure correva dritta
davanti a me, senza una fine apparente”.
E’ un racconto avvincente quello che Stefano Elmi fa
– tappa dopo tappa – nel suo “In Alaska fa
caldo”, appena uscito per una casa editrice storica dei
viaggi e della bici come Ediciclo. Un titolo che già di
per sé è una curiosità. Perché scopriremo che nei suoi
5000 chilometri, fino al punto dove le strade più a Nord
non vanno, Stefano ha patito la pioggia e anche la fame,
ma spesso un caldo soffocante sia pure in grandi distese
circondate da ghiacciai.
Sale da Calgary attraverso
la British Columbia, e per la prima volta in questo
viaggio deve mantenere vigile la preoccupazione per gli
orsi mentre si lascia sopraffare da una natura
sconfinata. E fa caldo, incredibilmente caldo. E’
affascinato anche se, a Calgary, nota che “ci sono tante
piste ciclabili che è un piacere girarla, ma la
periferia è alienante. Nei parcheggi dei grandi centri
commerciali, mall, tutto è a misura di automobile,
neanche uno schifo di ringhiera dove poter legare la
bicicletta”.
Sarà il primo dei contrasti stridenti che
racconterà: città fatte solo di grandi scatoloni e
centri commerciali a interrompere una natura
meravigliosa. E poi la lunga tirata di 700 km dal
confine americano attraverso il Canada, con la
pioggia e il fango che lo ricopre e attraverso una
muraglia verde che – strada a parte – appare
impenetrabile “persino alla luce del sole” e si
trasforma in una presenza inquietante (“Non avevo
provato questa pioggia. Appena arriva il sole mi
fermo un po’ ad asciugarmi. Sono ricoperto dalla
testa ai piedi di una melma di un colore indefinito,
che non capisco bene da dove sia arrivata”).
Una
contraddizione, simile a quella dei suoi incontri e
della vita sociale che attraversa. Dagli aiuti
arrivati quando il morale inizia a cedere, alle vite
incredibilmente lontane dalle nostre raccontate
dalle persone che gli affittano una stanza o lo
ospitano, trovate per caso o nei siti
per l’accoglienza ai viaggiatori; dalla difficoltà a
procurarsi persino una birra, ingabbiato dalle
restrizioni sugli alcoolici giudicate inutili anche
da chi le fa applicare, al contrasto stridente tra i
quartieri dei “nativi” e quelli dei bianchi (anche
nei paesi più piccoli). E ancora il problema degli
orsi che agita le notti in tenda nel nulla, con i
consigli di quelli che incontra: “Non dormire mai
dove hai mangiato, lascia il tuo cibo lontano dalla
tenda e vedrai che non avrai problemi”.
E alla fine l’entrata in Alaska, il sogno che
comincia ad avverarsi. “Immaginatevi una strada
completamente sterrata che corre lungo un crinale
grandissimo e semplicemente pazzesco. Immaginatevelo
grande e lui lo sarà ancora di più. Immaginatevi di
poter girare la testa a trecentosessanta gradi e non
vedere segno alcuno di presenza umana. Né una linea
elettrica, né un’antenna, né una costruzione. Solo
montagne in lontananza e boschi d’abeti che appena sotto
di te si estendono fin dove l’occhio umano può arrivare…
tutto è silenzio. Tutto è magico”. Insieme alla sorpresa
che dà il titolo a questo libro: “Sembra che funzioni
tutto al contrario qui. Più mi avvicino al mare e più
ghiacciai incontro, e fa pure un caldo tremendo durante
il giorno”.
Infine l’arrivo a Dawson City, la meta
del sogno realizzato. Di nuovo con la delusione per le
città “senza un centro vero e proprio, e senza un cuore
dove la gente possa ritrovarsi e riconoscersi... mettono
in risalto il divario fra le classi sociali, se ha
ancora senso parlare di classi oggi”. Il viaggio è
finito, ma non del tutto. La strada, anche se per poco,
continua ancora fino alla penisola oltre la quale non si
va: “Doveva essere la mia meta finale, però poi la
strada continuava e come facevo a lasciare la curiosità
chiusa in un cassetto? Così sempre avanti…”.
E qui
Stefano Elmi si deve fermare, lasciando solo una
considerazione finale. Che inizia così: “Mi piace
vedere. Mi piace conoscere di persona. Mi piace
raccontare. Mi piace essere padrone del mio tempo”. Come
tutti i grandi viaggiatori che amano narrare.
Nell’introduzione un passaggio lo descrive bene: “Le
ruote non lasciano tracce. E non hanno ripensamenti. Non
si torna indietro. Se lo si fa, è perché si è sbagliato
strada. Non esiste la brutta copia da ripassare in
bella… non c’è un foglio da stracciare o una penna da
sostituire”. Fogli e viaggi. In questo sito una
riflessione così ci sta alla perfezione.
“In
Alaska fa caldo. Il Nord, la bicicletta e Jack London”
di Stefano Elmi. 190 pagine. Ediciclo Editore
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