LA MIA LERI AZZURRA.
E LE BICICLETTE CINESI
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Mia moglie per Natale mi ha regalato una bicicletta a
pedalata assistita, forse in considerazione del fatto
che mi ostino ad andare in giro pedalando e così
sfidando fatica e traffico, nonostante la mia età.
All’inizio è stata una sorpresa, a cominciare dal fatto
che ho imparato a non partire mai con il motorino
inserito, perché la bicicletta alla prima pedalata
scatta a razzo rischiando di farti cadere a terra. Poi
ho capito che in salita non bisogna, come se si
trattasse di una bici normale, pedalare con più forza,
ma con meno impegno perché così il motore ti aiuta di
più. Ma il regalo di Natale mi ha spinto a ricordare le
mie biciclette, una sorta di pietre miliari della mia
vita.
La prima che mi ricordo era una Leri azzurra ed
io non andavo ancora a scuola. Me la regalò mio padre,
forse per un Natale, e io me ne innamorai subito. Mi
spiegarono che era in realtà la sottomarca della
Bianchi, la bici dei campioni. Da subito sospettai che
fosse di seconda mano, per via di uno sbrego sotto la
canna malamente camuffato da una vernice pure azzurra,
ma diversa dal resto del colore. Ma io facevo finta di
non vedere quel segno che delatava un tradimento
precedente e non la abbandonavo mai.
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Abitavamo a Sesto San Giovanni sul viale Marelli, la prosecuzione del viale Monza di Milano in territorio sestese. La strada aveva due marciapiedi amplissimi e nessuna traccia di automobili parcheggiate. Da una parte c’erano le case, tra cui la nostra, dall’altra le fabbriche, prima la Marelli, poi l’ Osva. Noi bambini passavamo le giornate a giocare a pallone o a percorrere su e giù in bicicletta quegli spazi immensi. Io diventai presto il più bravo con quella Leri azzurra. Un giorno mia mamma mi portò al Circo Orfei e a un certo punto da dietro il sipario uscì un clown che pedalava furiosamente su una bicicletta e quando aveva raggiunto una adeguata velocità saliva con i piedi sulla sella e sul manubrio. Pensai che anche io avrei potuto fare altrettanto e tempo dopo mia mamma mi confessò che il giorno successivo si era affacciata alla finestra per controllarmi e mi aveva visto con un piede sulla sella e uno sul manubrio della mia Leri azzurra. Non aveva avuto nemmeno la forza di gridare, perché temeva che se lo avesse fatto io sarei caduto disastrosamente. Presagio non immotivato, perché qualche tempo dopo, mentre ripetevo il mio numero da circo, finii rovinosamente contro uno dei grandi platani che punteggiavano il viale Marelli.
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Quella bicicletta fu anche lo strumento della mia
prima trasgressione. Un giorno senza dire nulla ai
nostri genitori, il Paolo, il Massimo, l’Augusto ed io
decidemmo di sfidare l’avventura. Partimmo di nascosto
con le nostre biciclette dal viale Marelli, costeggiammo
le mura della città delle fabbriche, la Marelli, la
Breda, la Pirelli, salimmo sul ponte di Greco, un
cavalcavia che affaccia sul cimitero, e tornammo a casa
dopo, credo, un’ora. Oggi quel percorso mi sembra una
sgambatura, ma allora a 5 o 6 anni noi quattro monelli
tornammo a casa esausti per la fatica e per l’emozione
della prima trasgressione.
Faccio un salto di
qualche decennio e la seconda bicicletta di cui mi
ricordo con piacere era cinese e l’ho avuta a Cuba
quando ero il corrispondente dell’Unità. L’avevo
comprata perché non riesco a stare senza un velocipede,
ma non fu facile. A Cuba in quegli anni spesso mancavano
i prodotti più vari. Poi arrivava una nave carica carica
di… e bisognava correre cercando di essere tra i primi,
pena rimanere ancora senza. Un amico, “un socio” (
Cuba terra non del socialismo ma del “sociolismo” come
dicono loro), mi avvisò che era arrivata la nave giusta.
La bicicletta pesava una tonnellata e io affermavo che
con pochi ritocchi avrebbe potuto essere trasformata in
un carro armato, se mai ci fosse stata l’invasione degli
yankee. L’Avana è una città con varie colline e i cubani
non amavano affatto risalirle pedalando: “Col caldo che
fa e con quello che pesano le cinesi” mi diceva con una
smorfia il mio meccanico dell’auto Felix. L’ho usata per
anni, arrancando sulle salite dell’Avana, ma poi le
biciclette cinesi sono state protagoniste di un caso
politico.
A Cuba spesso le cariche ufficiali non
corrispondono alla vera importanza di chi le ostenta.
Avevo un amico presidente di una società statale, ma che
era molto di più. Prima della Rivoluzione aveva studiato
negli Usa e aveva mantenuto molte amicizie importanti
lassù, per cui gli venivano assegnate missioni
diplomatiche riservate quando si trattava di parlare con
qualcuno a Washington.
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Dopo la fine dell’Urss e degli aiuti sovietici a
Cuba la crisi fu pesantissima e vi si fece fronte
con il “periodo especial”. Il mio amico un giorno mi
disse: “Questa crisi tremenda può avere anche lati
positivi, per esempio attivare l’iniziativa privata,
almeno in alcuni settori. Per esempio, adesso, per
far fronte alla drammatica insufficienza dei
trasporti, importeremo molte bici cinesi. Ma non è
che lo Stato deve mettersi ad aggiustare pneumatici
bucati o raggi spezzati. Lo può fare un meccanico
privato”.
Mi assentai per un anno e quando tornai
andai a trovare il mio amico. La segretaria mi
guardò con imbarazzo: “Non c’è, è stato nominato
ambasciatore in un Paese africano”. Che è il modo
con cui la Rivoluzione spediva lontano chi aveva
qualche problema, ma era considerato ancora un uomo
di fiducia. Mi chiedevo cosa avesse mai fatto il mio
amico per finire in Africa. Mentre pensavo tornai
all’hotel Riviera sul Malecòn , il lungomare.
Proprio di fianco c’era l’abitacolo di un vecchio
bus ormai senza ruote, ma trasformato in una
officina di pronto intervento per le biciclette. I
cubani sono maestri nel riutilizzare qualsiasi cosa.
Ebbi come un presentimento e andai diretto dal
meccanico. “Compagno questa officina è privata?”
“Privata? Macché è della municipalità”. Ecco
spiegato tutto, il mio amico è finito a fare
l’ambasciatore in Africa per colpa delle biciclette
cinesi.
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